Nonostante ciò, nell’ambulacro del Loggiato dei Lumi le decadi vissute nell’arte sembrano srotolarsi, quasi fossero una timeline visiva dove ogni opera sembra trovare naturalmente il suo posto e la sintesi delle forme pare disvelare un’evoluzione organica.
Il colpo d’occhio di fronte all’opera di Nino nel suo complesso parla di armonia delle palette di colori, di ricerca formale, di tensione continua verso un equilibrio razionale, il tutto coniugato con il sapiente uso delle tecniche, e dei materiali progettati a loro supporto.
Uscendo dalle espressioni e dalle ricerche formali degli Anni ’50, il pennello dell’artista si riduce a pura tecnica pittorica, dove è il colore stesso a costruire l’architettura dell’opera. I quadri di Ricci non raccontano, ma restano a disposizione dello spettatore.
Gli Anni ’50 anni sono stati importanti per la sua formazione. Esortato dal padre, Nino Ricci ha frequentato la Scuola del Libro di Urbino che in quegli anni era indubbiamente l’istituzione più importante in Italia per la grafica editoriale, l’illustrazione e l’incisione. Gli insegnamenti ricevuti lo accompagneranno poi costantemente lungo tutta la sua attività artistica.
Successivamente la sua formazione e la ricerca del suo segno proseguono prima presso l’Accademia di Belle Arti di Roma nella sezione scenografia, dove ha avuto come insegnate il conterraneo Sante Monachesi; poi come borsista al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma.
Al ritorno da Roma, nel 1954, incontra Osvaldo Licini in occasione della Mostra Nazionale d’Arte Astratta organizzata in collaborazione con la Brigata Amici dell’Arte. Un altro incontro fondamentale fu quello con Jean Fautrier alla XXX Biennale di Venezia, grazie al quale, negli Anni ’60, Ricci decise di unirsi al Gruppo Levante.
Con Ciucci, Ferraioli, Peschi, Tulli e Nerpiti ha poi partecipato all’importante mostra monografica a Palazzo Strozzi di Firenze del 1963, organizzata dalla Galleria Numero diretta da Fiamma Vigo.
Gli Anni ’60 hanno portato a una misurata ricerca dell’ordine, teso ad un astrattismo geometrico dall’assetto scenografico dove l’indagine estetica, attraverso un processo di riduzione e scomposizione della realtà, è volta da subito a cercare l’equilibrio tra la bidimensionalità delle forme e la tensione nelle linee (n.981,982,990),.
Sulla tela vengono portate forme, linee e colori volutamente ridotti all’essenziale e disposti secondo uno schema geometrico che è totalmente scevro da significati allegorici. È possibile rintracciare nei quadri l’indagine condotta dall’artista sulla forma e sul contenuto. La precisione a prima vista matematicamente perfetta dei lavori di questi anni nasconde, in realtà, un universo di piccole volute alterazioni, perché la tela vuole essere rappresentazione grafica di un’emozione, di un sentimento.
Dagli Anni ’70 in poi l’artista si avvicina a un nuovo formalismo geometrico dove il volume e la sua la solida tridimensionalità diventano essenza pura. Il formato delle tele, ora quadrato e capovolto, secondo la lezione di Max Bill e Richard Paul Lhose, accoglie toni e palette più audaci e pop che presentano forme e geometrie molto diverse dalle opere precedenti (244,289).
L’artista sperimenta quasi ossessivamente tutte le possibili variazioni e le differenti iterazioni intorno allo stesso modulo, così da poterne calibrare ogni volta nuovi equilibri attraverso le diverse soluzioni cromatiche e i dialoghi tra le continue intersezioni.
Per gran parte degli Anni ’70 e buona parte degli anni ’80, il formalismo geometrico accompagna tutto il lavoro di Nino Ricci. Nel 1984 chiude con l’insegnamento per dedicarsi interamente all’attività artistica, e viaggiare in compagnia dell’amata moglie Stefania.
In particolare, un viaggio a Praga nell’estate del 1986 ha segnato una svolta importante nella sua carriera artistica. La visione delle lapidi del Cimitero ebraico della città si rivela infatti un’epifania per l’artista, ispirandogli una nuova serie di lavori che diventeranno presto iconici nella produzione degli anni successivi.
Da quel momento un nuovo umanesimo avvolge le sue opere. Le linee rincorrono una nuova morbidezza e plasticità. I volumi non rispondono più ai canoni classici geometrici e matematici, ma si innalzano ad una nuova dimensione eterea e atemporale, perdendo peso e staticità.
Per utilizzare le parole di Giuseppe Appella: “Le rovine – l’oggetto totemico interpretato ed espresso tra il 1989 e il 2002 – si dilatano al di là del proprio fenomeno. Superano la loro apparenza di natura morta, si dispongono secondo la frequenza della simmetria e dell’allineamento, delle presenze e delle direzioni, quasi sempre orizzontali, intraprese con improvvise impennate verticali e una quantità di energia pari all’indirizzo cadenzato, allo sviluppo del movimento tra piano e contropiano.”
Le Nature o Volumi popolano le tele dell’artista per oltre un ventennio. La loro composizione è il risultato di meticolosi studi sull’impatto della luce e, quindi, delle ombre sulle superfici dei tagli che l’artista studia attraverso maquettes preparatorie, anch’esse presenti in mostra.
Negli stessi anni, in acquarelli, pastelli, carboncini, grafiti e nell’incisione viene applicata la stessa ricerca sul volume che, grazie a un sofisticato tratteggio, intensifica e riporta nella stampa il gioco di luci e ombre.
Ad interessare l’artista, oltre allo studio puntiglioso della tecnica, è anche la raffinata conoscenza dell’uso della carta nelle tecniche artistiche, per le quali nel 1992 si trovò a scrivere un trattato insieme a Luigi Teodosi dal titolo: In Chartis Fabriano, con l’introduzione di Vanni Schewiller.